Sutrium: e Dedra si fa le canne… al buio.

E’ stata la giornata del cambio di rotta.

Per evitare lo scontro di correnti artiche con i miti venti di scirocco che ancora indugiano sulla penisola, l’ago della bussola e la nostra prua hanno virato di 180°, volgendo rapidi verso il nord, dove la tramontana aveva già parzialmente conquistato il cielo, lasciandosi alle spalle strappi di cobalto e nuvole sfilacciate. E così, invece di una visita all’Istituto Superiore Antincedi, nel cuore di Testaccio, siamo corsi in su, nella fredda Tuscia, sulle tracce degli Etruschi. Una Cassia semideserta ci ha portato veloci a Sutri, dove il sole d’inverno colorava d’ocra il tufo delle mura.
L’ora tarda ci ha suggerito, complici i nostri stomaci, di andare prima alla conquista di un tavolo, piuttosto che gettarci con le nostre reflex a scavare nella storia. Seguendo la scia invisibile dei sentori di legna bruciata e di carne arrosto, peregriniamo tra i muri ed i freddi vicoli del centro storico, fino alla umida penombra di un anfratto e alla scura e solitaria insegna dell’Hostaria “Il buco – Da Salvatore”. Una porta-vetrata anonima ed una tenda antimosche separano la strada da un ambiente recuperato dal passato, come in un film di Alberto Sordi. Sembra di entrare a casa propria, e gli altri commensali potrebbero essere i tuoi migliori amici. Pochi tavoli, disposti casualmente in un salone con caminetto, caldo accogliente, tovaglie di carta e odore di coniglio in salmì. L’istinto ci ha condotti nel luogo giusto. Prendiamo posto al tavolo, vicino ad un’illustrazione in carboncino incassata e direttamente incorniciata nel muro. Danilo la nota soddisfatto. Ci sono le salsicce appese al montante del camino, ci sono le dediche sui muri lasciate da qualche avventore; è lo spazio artistico di un luogo di confine, dove sono transitate genti e culture diverse.
Dal tavolo a fianco, al quale prende posto un gruppo di gioiosi romani di mezz’età, si levano racconti popolari che riecheggiano gesta di mitologiche figure femminili. Ecco Amalia, che quando bacia ti bagna tutto il viso, ecco Dedra, inafferabile, tenebrosa, che si fa le canne al buio. Seguiamo a stento.
Poi il solito salto dello spazio-tempo: parlano di Malga Panna. E allora ecco il mio passato, ecco la Val di Fassa, i luoghi a me cari; e il mondo intiero improvvisamente si restringe a dimensione famigliare, come il locale in cui stiamo pranzando. Gente diversa, sconosciuta, che ha percorso le tue stesse tracce e che ora ritrovi seduta al tavolo a fianco. E’ questa la meraviglia del viandante, del viaggio a dimensione uomo, senza meta e senza tempo.
Simona governa il caminetto. Con composta allegria rinnova la legna da ardere e dispone la carne sulle braci. Si guarda intorno, nella sua camicia azzurra, nascosta dietro i suoi riccioli neri. Basta la domanda giusta ed un sorriso in più per sciogliere la sua apparente timidezza. Mi racconta con enfasi la storia di Sutri, mi parla delle tradizioni, che tiene ben conservate nel suo animo e del fantoccio del povero checco, che viene portato in processione il martedì grasso e bruciato la sera nella piazza centrale, su una pira di legna; come nelle forti tradizioni montanare si scaccia l’oscuro, si bruciano le streghe ed il male, in un gesto catartico collettivo. Nella mia mente si evocano le immagini di questo fantoccio riempito di coriandoli e stelle filanti che brucia volando in cielo in un moto pirotecnico di barbiglie luminose. Come la stella cometa, è l’inizio di una nuova epoca. Non si arresta Simona, i suoi occhi ora brillano come la brace nel camino, mentre ci addentriamo nel confronto tra i viterbesi ed i sutrini; duri e chiusi nella loro roccaforte i primi, gelosi, medievali; più aperti i secondi, “…si sposano pure con quelli di fuori…”. L’Italia dimenticata rivive nelle sue parole.
Arrivano le bistecche, le patate, i carciofi e le puntarelle; tutto è cucinato con calma e semplicità. E con la stessa calma portiamo a termine il nostro pranzo. Il calore che riempiva lo stomaco ed il cuore lascia il posto ad una tramontana fredda e tagliente, di spiffero. Il sole è già basso, la luce obliqua disegna ombre lunghe e azzurrine; sono i fantasmi della Tuscia. Gli andiamo incontro girovagando negli anfratti verdi di muschio dell’anfiteatro del Mitreo. Mi passano davanti duemila e seicento anni di storia, di riti pagani e offerte a divinità ancestrali, di misteri e culture antiche. Nel bosco adiacente il giardino superiore, la luce filtra a stento tra le fronde spoglie di enormi quercie, l’umidità mi riempie i polmoni; il silenzio è surreale e mi sembra di scorgere fugaci figure di folletti e ninfe. Giocano con le ombre, irridono alla nostra presenza straniera. Ma è tardi per questa giornata di fuga dalla pioggia; il sole conclude il suo corso dietro al canneto, la luce sembra prendersi gioco dei sensori delle nostre macchine fotografiche. Ci rimane qualche istante per curiosare tra le nicchie della necropoli, scavate nel malleabile tufo, camminando su un morbido pavimento di foglie e ghiande. Il freddo della sera vince, abbiamo guance e mani gelate. La prua torna a sud, lascia la storia. Motore avanti mezza, su una Cassia che ora ha riflessi azzurro-verdognoli, contrapposti ai cumulonembi residui che indugiano sopra al Soratte, inondati di arancione degli ultimi raggi.
Sono stanco. E di ottimo umore.

Gianluca

sutri, tuscia
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2 Commenti. Nuovo commento

  • bel racconto anche questo, sintetico, ricco di emozioni e di profumi. Perchè non scrivi un libro?… e belle le foto…

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  • Non è facile, ai giorni nostri, riuscire a comprendere lo spirito di un paese come Sutri. Ancor meno riuscire a raccontarlo e farlo comprendere. Da Sutrina posso dire che ci sei riuscito alla grande. Dal nostro piccolo, ma grande paese, così vicino allo sviluppo, ma così attento alle tradizioni, un saluto!

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